martedì 19 dicembre 2017

La ripetizione dell'indebito anche su conto aperto.

Con l’ordinanza n. 28819/2017, depositata il 30 novembre 2017, la I sez. civile della Corte di Cassazione, pur affermando che la determinazione definitiva dei crediti e dei debiti delle parti può aver luogo soltanto alla chiusura del conto, ha ritenuto che ciò non precluda al correntista la facoltà di agire nel corso del rapporto per ottenere una rettifica delle risultanze del conto.
La vicenda nasce dall’azione di ripetizione dell’indebito mossa da un’azienda che ha convenuto in giudizio la Banca per sentir dichiarare la nullità della clausola contrattuale che rinviava agli usi per la determinazione del tasso d’interesse e di quella che prevedeva la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, nonché l’illegittimità dell’applicazione della commissione di massimo scoperto, con la rideterminazione del saldo del conto e la compensazione delle somme illegittimamente addebitate, ovvero la condanna della convenuta alla restituzione delle stesse. Il tutto per un conto corrente aperto nel 1987 e per il quale il saldo è stato rideterminato in €103,957,03.
Con una pronuncia destinata per certi versi a fare storia, la Corte, ribadendo che la prescrizione decennale decorre dal momento di chiusura del conto e non dal momento di effettuazione dei singoli versamenti, ha dichiarato legittima la richiesta di rideterminazione del saldo conto, anche se lo stesso risultava ancora aperto al momento dell’azione mossa dal correntista. Non essendo infatti il saldo passivo del conto corrente immediatamente esigibile, se non eccedente l’importo dell’affidamento concesso ai correntista, soltanto i versamenti eseguiti in presenza di uno scoperto e volti a ricondurre il predetto saldo nei limiti del fido sono qualificabili come pagamenti la cui effettuazione ad estinzione di un debito totalmente o parzialmente inesistente, in quanto determinato in applicazione di una clausola nulla, fa sorgere il diritto alla ripetizione, con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione.
 

venerdì 6 ottobre 2017

Per la Cassazione l’usura del tasso di interessi moratori travolge anche gli interessi corrispettivi. E gli interessi si possono sommare.

 
È sicuramente una sentenza che farà parlare molto – e tremare le banche – quella emessa ieri dalla Cassazione [1]. Intervenendo su un tema molto dibattuto negli ultimi anni, quello dell’usura bancaria, la Suprema Corte ha detto che, per accertare se sono usurari o meno gli interessi praticati sul mutuo dalla banca, è possibile cumulare gli interessi corrispettivi e quelli moratori e verificare poi se il risultato determina un superamento del tasso-soglia previsto dalla legge [2]. Non solo: se ad essere usurari sono solo gli interessi moratori previsti originariamente nel contratto, il correntista non è tenuto a corrispondere neanche quelli corrispettivi. Un esempio servirà a capirci meglio.
Immaginiamo un correntista sempre in regola coi pagamenti delle rate del mutuo. La rata è ovviamente costituita da una parte di capitale e da una parte di interessi (cosiddetti «interessi corrispettivi»). Dopo un po’ di tempo si accorge che, nel contratto, è previsto che, qualora ometta di pagare una rata, su questa scatteranno gli interessi di mora (cosiddetti «interessi moratori»). La misura di questi interessi gli sembra eccessiva; un consulente gli conferma che si tratta di interessi usurari. Così il correntista decide di ricorrere al giudice per farsi giustizia. La banca però si difende sostenendo che il correntista non ha mai pagato interessi moratori, visto che è sempre stato in regola con i pagamenti. Egli non può lamentare quindi alcun danno visto che ha corrisposto solo interessi corrispettivi, i quali invece sono al di sotto dell’usura. Il privato, invece, sostiene di essere stato raggirato e che solo il rischio di pagare un interesse usurario determina la nullità del contratto. Chi dei due ha ragione?
In questo caso, la Cassazione dà ragione al mutuatario, ossia al debitore. Difatti, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti in contratto, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettive tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore. Come già la stessa Suprema Corte aveva detto in passato [3], in tema di contratto di mutuo, la legge [1] – che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari – «riguarda sia gli interessi corrispettivi che gli interessi moratori».
Secondo la Cassazione, quindi, l’usurarietà riguarda sia gli interessi moratori che corrispettivi. Inoltre – e qui l’importanza della sentenza – si possono sommare gli interessi corrispettivi e quelli moratori al fine di verificare il superamento del tasso soglia dell’usura. Secondo invece l’interpretazione sposata in passato dalla stessa Suprema Corte la sommatoria rappresenterebbe «un tasso “creativo” mai concretamente applicabile al mutuatario». E pure Bankitalia esclude che gli interessi moratori siano da calcolare ai fini dell’usura.

note

[1] Cass. ord. n. 23192/17 del 4.10.2017.
[2] Art. 1 della legge 108/96.
[3] Cass. sent. n. 350/2013.

mercoledì 2 agosto 2017

Mutui e derivati: la nullità del tasso Euribor



Segnalo un testo di particolare interesse , scritto dall' amico Prof. Gregorio D' Amato , edito da ALTALEX Editore, sulle nullità del Tasso Euribor.
La Questione trae origine da una decisione del 04/12/2013 della  Commissione Europea resa pubblica solo nel novembre del 2016,in virtù della quale, sono stati sanzionati alcuni istituti bancari per la violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dell’art. 53 dell’Accordo sull’Area Economica Europea. La violazione è consistita in accordi e/o azioni concertate nell’ambito almeno dell’intera EEA con l’obiettivo di limitare e/o distorcere la competizione nel settore dei tassi d’interesse dei derivati dell’euro, anche connessi al Tasso Interbancario di Offerta in Euro (“EURIBOR”) e/o all’Indice Medio Overnight in Euro (“EONIA”). L’effetto principale di tali accordi è la naturale restrizione alla competizione.
Lo Studio Legale Quintieri ha già inserito nei propri atti , motivi di nullità riguardanti il tasso euribor, ritenendo valido quanto sostenuto dalla Commissione Europea e dal Prof. D' Amato uno dei primi in Italia a parlarne sul sole 24 ore.

http://shop.wki.it/Altalex_Editore/eBook/eBook_Mutui_e_derivati_la_nullita_del_tasso_Euribor_s645062.aspx

mercoledì 19 luglio 2017

TASSO DI MORA IN USURA: VANNO RESTITUITI GLI INTERESSI


Questo in sintesi quanto sostenuto da una recente sentenza del Trib. Como – sent. n. 1088/2017 del 13 luglio 2017 conforme ad altre precedenti di merito e legittimità. Su  questo corollario, questa difesa, ha incardinato con successo notevoli processi, sostenendo sempre che :

 

Al fine di accertare l’eventuale sussistenza di interessi usurari, ènecessario individuare il ‘tasso effettivo globale’ (cosiddetto TAEG) concretamente praticato durante lo svolgimento del rapporto controverso, e ciò sulla scorta dell’univoca previsione dell’art. 2 della legge n. 108/1996, va evidenziato come, secondo giurisprudenza ormai consolidata, in tale tasso vadano incluse le commissioni e spese che siano funzionali alla messa a disposizione di una massa di denaro da parte della banca in favore del proprio cliente, per tali potendosi intendere anche gli interessi di mora in quanto, pur se ontologicamente diversi da quelli corrispettivi e dovuti solo per effetto dell’eventuale

inadempimento da parte del mutuatario, anch’essi connessi all’erogazione del credito. Va accolta la censura attorea anche con riferimento alle conseguenze della accertata natura usuraria del tasso di mora concordato, conseguenze destinate a concretarsi, secondo l’orientamento giurisprudenziale largamente dominante, nella statuizione di nullità ex art. 1815, comma 2, c.c. della pattuizione degli interessi e nella esclusione di ogni debenza, dovendo l’obbligazione restitutoria gravante sul mutuatario essere circoscritta al solo capitale. Ai fini della conversione forzosa del mutuo da oneroso a gratuito, discendente dalla natura imperativa del disposto di cui all’art.1815, comma 2, c.c. non rileva che lo stesso mutuatario non abbia mai subito, nel corso del rapporto, la applicazione degli interessi di mora, dovendo l’usurarietà del tasso essere valutata con riferimento al momento in cui il tasso sia stato promesso o convenuto, anche se non concretamente applicato.

Usura: la commissione di massimo scoperto rientra nel calcolo del Taeg


Con la sentenza numero 15188 depositata il 20 giugno 2017 (e sotto allegata), la Suprema Corte ha ribadito che, come è ormai orientamento consistente:

“È da ritenere del tutto sicuro che l’onere recato dalla commissione di massimo scoperto esprima un costo del credito; e che, in quanto tale, lo stesso vada inserito nel conto delle voci rilevanti per la verifica dell’eventuale usurarietà dei negozi conclusi dall’autonomia del privati.” (Cass. n. 12028 del 2010; 28743/2010; 46669/2011).
È vero che ci sono state sentenze di diverso orientamento giuridico, ma è vero altresì che l’orientamento prevalente della Corte, sembra invece essere indirizzato nel considerare la CMS tra i costi legati all’erogazione del credito, e di conseguenza da considerare nel calcolo del TAEG e dell’usura.
Partendo da questa prospettiva, con l’introduzione, nella legge 2/2009 dell’articolo 2 bis comma 2, risulta automatico assumere, come regola, l’interpretazione autentica dell’articolo 644 del codice penale che chiarisce cosa rientra nel calcolo degli oneri indicati, correggendo una prassi amministrativa difforme. (si cfr. Cass. 12028/2010).
Si legge sempre nella sentenza della Cassazione che: “la commissione di massimo scoperto integra quale costo addossato al debitore, una specifica forma di remunerazione del credito”.
Per quanto concerne la rilevabilità ed i limiti temporali per eccepire l’usura in un giudizio pendente, è principio ormai consolidato che la nullità, derivante dalla usurarietà nei contratti, può essere fatta valere in qualsiasi stato e grado del processo e finanche d’ufficio.
A tal proposito si ricordano alcune sentenze che hanno dichiarato quanto sopra detto, ovvero Cassazione n. 2910 del 2016 e Cassazione a SSUU n. 26242 del 2014.
Usura: la commissione di massimo scoperto rientra nel calcolo del Taeg
La recente sentenza di Cassazione, fa specifico riferimento anche ad una precedente sentenza, sempre della Suprema Corte, sentenza n. 12028 del 2010, che aveva ben specificato quali sono gli oneri che rientrano nel calcolo dell’usura e del costo del denaro ex articolo 644 del codice penale, correggendo quindi una prassi amministrativa difforme a quello che invece dovrebbe essere per legge e, soprattutto, doveva essere.
Ai fini dell’usura, contano tutti gli oneri economici che risultano caricati sul cliente
È vero che la circolare della Banca d’Italia dichiarava che la commissione di massimo scoperto non entrava nel calcolo del TEG, fino al 2009 ovvero fino a quando è venuto a mutare l’orientamento della Banca d’Italia, ma è pur vero che la circolare si rivolge solo agli intermediari finanziari.
Le istruzioni della Banca d’Italia, sempre richiamate in difesa dagli Istituti bancari, non vengono prese in considerazione nell’ambito della normativa di cui alla Legge n. 108/96, ma sono rivolte esclusivamente agli intermediari finanziari.
Predette istruzioni, in pratica non hanno, nè propongono, alcun contatto o interferenza con i negozi dell’autonomia dei privati.
Le circolari, e le istruzioni della Banca d’Italia, non rappresentano una fonte di diritti e obblighi nell’ipotesi in cui gli istituti bancari si conformino ad una erronea interpretazione fornita in una circolare.
Usura: la commissione di massimo scoperto rientra nel calcolo del Taeg
Non può essere esclusa la sussistenza del reato sotto il profilo dell’elemento oggettivo. Le circolari e le direttive, ove illegittime e in violazione di legge, non hanno efficacia vincolante per gli istituti sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, neppure quale mezzo di interpretazione.
Seppur le istruzioni emanate dalla Banca d’Italia fin dal 1996 indicano che la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del TEG fino al 2009, le stesse aggiungono che essa viene rilevata separatamente ed espressa in termini percentuali.
Se ne potrebbe dedurre dunque, da una corretta interpretazione, che la Banca d’Italia piuttosto che considerare irrilevante ai fini dell’usura la commissione di massimo scoperto, in realtà la consideri rilevante ma in maniera autonoma.
Sicuramente la circostanza che vi sia una continua indicazione della commissione di massimo scoperto nei decreti di rilevazione trimestrali è significativo.
D’altronde gli organi di vertice delle imprese bancarie hanno il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente, essendo loro attribuiti, dai relativi statuti, poteri in materia di erogazione del credito, rientranti nell’ambito dei più generali poteri di indirizzo dell’impresa.
Quindi in base alla interpretazione data dalla Cassazione, nella sentenza n. 15188/2017, la CMS va considerata al fine di quantificare l’effettivo costo del denaro sopportato dall’utente finale, e va considerata secondo quanto disposto dall’art. 644 c.p., secondo la legge 2/2009, e non a far data dal 2010, ma anche nei rapporti antecedenti.

sabato 3 giugno 2017

La CMS va inclusa nel TEG? la Cassazione n. 12965/2016

La portata di tale pronuncia ha influito su numerose pronunce della giurisprudenza di merito che ne riprendono pedissequamente i principi e, senza ulteriori argomentazioni, accolgono nella risoluzione di controversie bancarie la soluzione della Suprema Corte[6].
Altre pronunce della  giurisprudenza, aderendo alle precedenti sentenze della Cassazione Penale del 2010 e 2011 (Cassazione Penale, sez. II, 26 marzo 2010, n. 12028; 14 maggio 2010, n. 28743; sez. II, 23 novembre 2011, n. 46669) si sono discostate da quanto affermato da Cassazione Civile del 2016, ribadendo quanto già reiteratamente affermato da parte della giurisprudenza di merito antecedente alla Cassazione in parola[7], che la CMS vada considerata ai fini della determinazione del tasso soglia anche per il periodo precedente le Istruzioni della Banca d’Italia dell’agosto 2009.
La posizione assunta dalla Cassazione Civile 12965/16 ha, da ultimo, incontrato una pronta rettifica da parte della stessa I Sezione Civile (Cassazione Civile, sez. I, 5 aprile 2017, n. 8806), che, pur non occupandosi direttamente dell’inclusione nella verifica dell’usura delle CMS applicate ai conti correnti ma delle spese assicurative applicate ai rapporti di finanziamento rateale, afferma la necessità di subordinare le Istruzioni della Banca d‘Italia alla normativa primaria (art. 644 c.p.), disconoscendo di fatto i principi posti a fondamento della Cassazione n. 12965/ 16.
Nello specifico la Cassazione Civile, 5 aprile 2017, n. 8806, riconoscendo il carattere di onnicomprensività fissato dall’articolo 644 del codice penale,  nega i principi di omogeneità e simmetria che avevano contraddistinto la pronuncia del 2016 ed afferma che “la normativa di divieto dei rapporti usurari - così come in radice espressa dall’articolo 644 del codice penale, nella versione introdotta dalla legge n. 108/1996, nel suo art. 1 considera rilevanti tutte le voci del carico economico che si trovino applicate nel contesto dei rapporti di  credito (…) Del resto, non avrebbe neppure senso opinare diversamente nella prospettiva della repressione del fenomeno usurario, l’esclusione di talune delle voci per sé rilevanti comportando naturalmente il risultato di spostare - al livello di operatività della pratica - la sostanza del peso economico del negozio di credito dalle voci incluse verso le voci escluse”. La Suprema Corte precisa che “detto carattere «onnicomprensivo» per la rilevanza delle voci economiche - nel limite esclusivo del loro collegamento all’operazione di credito - vale non diversamente per la considerazione penale e per quella civile del fenomeno usurario. L’unitarietà della regolamentazione – così come la centralità sistematica della norma dell’articolo 644 per la definizione della fattispecie usuraria sotto il profilo oggettivo, che qui specificatamente interessa – si trova sottolineata, del resto, dallo stesso fatto che la legge n. 108/1996 viene a considerare pari passu entrambi questi aspetti (cfr., in particolare, la disposizione dell’art. 4)”.
Da tali premesse fa discendere la subordinazione all’articolo 644 del codice penale delle disposizioni esecutive del MEF e della Banca d’Italia: “La centralità sistematica della norma dell’articolo 644 in punto di definizione della fattispecie usuraria rilevante non può non valere, peraltro, pure per l’intero arco normativo che risulta regolare il fenomeno dell’usura e quindi anche per le disposizioni regolamentari ed esecutive e per le Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia. Se è manifesta l’esigenza di una lettura a sistema di queste varie serie normative, pure appare chiaro che al centro di tale sistema si pone la definizione di fattispecie usuraria tracciata dall’art. 644, alla quale si uniformano, e con la quale si raccordano, le diverse altre disposizioni che intervengono in materia”.

lunedì 15 maggio 2017

LA CASSAZIONE CONFERMA QUANTO SOSTENUTO DA QUESTO STUDIO NEI PROPRI ATTI


 La sentenza in questione è quella della Cassazione civile, sez. I, 11 maggio 2017, n. 11554:
“ Il potere del correntista di chiedere alla banca di fornire la documentazione relativa al rapporto di conto corrente tra gli stessi intervenuto può essere esercitato, ai sensi del comma 4 dell’art. 119 del vigente testo unico bancario, anche in corso di causa e a mezzo di qualunque modo si mostri idoneo allo scopo”.
L’art. 119 4° comma del testo unico bancario ( d.l.gs. 385/1993), riconosce al cliente o a colui che gli succede a qualunque titolo o che ne subentra nell’amministrazione e ha diritto di avere, a proprie spese ed entro il termine di 90 giorni dalla richiesta, copia della documentazione relativa alle singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni.
Trattasi di un diritto autonomo del correntista e la banca ha il dovere di offrire la documentazione richiesta, nel rispetto dell’obbligo di buobna fede, correttezza e solidartietà.
È certo, poi che il cliente abbia il diritto di ricevere anche copia dei contratti sottoscritti. L’obbligo in capo alla banca di consegna del contratto, consegue difatti al dovere generale della banca di comportamento secondo correttezza, imposto peraltro ad entrambi i contraenti di un contratto.
La norma richiamata dalla disposizione dell’art. 119 tub ha un' importanza notevole, quale strumento di tutela del cliente e spesso viene utilizzata dalla banca in modo fuorviante in pendenza di giudizio. Non è affatto raro che in corso di causa, la consulenza tecnica d’ufficio non viene ammessa perché ritenuta esplorativa, oppure se ammessa il consulente nominato non riesce a fare alcun indagine perché i documenti depositati dal correntista sono insufficienti.
Ci sono numerose sentenze del Tribunale e della Corte d’’Appello di Milano, che hanno rigettato le domande di correntisti di accertamento negativo del debito, solo perché la richiesta di documentazione ex art. 119 TUB, è avvenuta dopo la notifica dell’atto di citazione, vale a dire in corso di causa.
Ebbene la clamorosa sentenza della Cassazione riporta in auge, il vero significato del diritto alla trasparenza e informazione bancaria, spesso dimenticato dai tribunali, che sono convinti che la norma dell’art. 119 assegna al correntista la possibilità e facoltà, di ottenere la documentazione della relazione bancaria, che può essere esercitata solo prima che il giudizio, – interessato dalla documentazione bancaria relativa, – venga promosso e instaurato; dall’altro, e comunque, che una richiesta giudiziale di esibizione documentale, seppur proveniente dal
correntista, non viene a integrare gli estremi di una richiesta di documentazione promossa ex art. 119 TUB.
Eppure la legge riconosce un diritto che non è soggetto a restrizioni “E con cui viene a confrontarsi un dovere di protezione in capo all’intermediario, per l’appunto consistente nel fornire degli idonei supporti documentali alla propria clientela, che questo supporto venga a richiedere e ad articolare in modo specifico. Un dovere di protezione idoneo a durare, d’altro canto, pure oltre l’intera durata del rapporto, nei limite dei dieci anni a seguire dal compimento delle operazioni interessate”.
La Cassazione pur analizzando i vari rilievi, rigetta la soluzione adottata dalla Corte bolognese – secondo cui l’esercizio di questo potere di accesso e/o richiesta della documentazione alla banca, sia limitato alla fase anteriore all’avvio del giudizio eventualmente intentato dal correntista nei confronti della banca presso la quale è stato intrattenuto il conto. La Suprema Corte, afferma che “ una simile ricostruzione non risulta solo in netto contrasto con il tenore del testo di legge, che peraltro si manifesta equivoco. La stessa tende, in realtà, a trasformare uno strumento di protezione del cliente – quale si è visto essere quello in esame – in uno strumento di penalizzazione del medesimo: in via indebita facendo transitare la richiesta di documentazione del cliente dalla figura della libera facoltà a quella, decisamente diversa, del vincolo dell’onere. D’altra parte, neppure è da ritenere che l’esercizio del potere in questione sia in qualche modo subordinato al rispetto di determinare formalità espressive o di date vesti documentali; né, tanto meno, che la formulazione della richiesta, quale atto di effettivo esercizio di tale facoltà, debba rimanere affare riservato delle parti del relativo contratto o, comunque, essere non conoscibile dal giudice o non transitabile per lo stesso. Ché simili eventualità si tradurrebbero, in ogni caso, in appesantimenti dell’esercizio del potere del cliente: appesantimenti e intralci non previsti dalla legge e frontalmente contrari, altresì, alla funzione propria dell’istituto. Il tutto, in ogni caso, nell’immanente limite di utilità, per il caso di esercizio in via giudiziale della facoltà di cui all’art. 119, che la richiesta si mantenga entro i confini della fase istruttoria del processo cui accede.”
È opportuno infatti ricordare che, l’articolo 119 tub attribuisce al correntista la facoltà di richiedere alla banca “copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni” e, pertanto, non ha alcuna attinenza con l’articolo 210 cpc che, invece, consente al giudice-su istanza di parte- di ordinare all’altra parte l’esibizione della documentazione “di cui ritenga NECESSARIA l’acquisizione al processo” senza alcun limite temporale. Trasferire il limite decennale di cui all’articolo 119 tub all’interno dell’articolo 210 cpc che, invece, come unico limite prevede espressamente la rilevanza del documento (anche se ultradecennale ) è francamente una forzatura -che, tra l’altro, non tiene nemmeno conto degli obblighi di rendicontazione dell’istituto di credito in riferimento alla regolare tenuta di “tutto” il rapporto- che per fortuna la Suprema Corte ha definitivamente chiarito contribuendo (lo si auspica) a ripristinare la giustizia è la parità delle parti del in sede processuale.”

domenica 9 aprile 2017

Contratto bancario nullo se firmato solo dal cliente : Cassazione Civile, sez. I, sentenza 24/03/2016 n° 5919

Debiti e crediti di più contratti bancari si compensano

La sentenza in commento rappresenta un deciso cambiamento di rotta della Suprema Corte in materia di contratti bancari e finanziari, suscettibile di avere un effetto dirompente in tutti quei contenziosi, in vero molto frequenti nelle aule di Tribunale, in cui si controverta sulla validità del contratto c.d. “monofirma” prodotto in giudizio, ossia caratterizzato dalla presenza sul documento della sola sottoscrizione del cliente, mentre manca la firma della banca o dell’intermediario finanziario.
Come è noto, la disciplina dei contratti bancari e finanziari prevede la necessità di forma scritta del contratto a pena di nullità (art. 117 T.U.B. e art 23 T.U.F.). Trattasi di nullità c.d. “di protezione” che può essere fatta valere solo dal cliente se ritenuta a suo vantaggio (art. 127 T.U.B. e art 23 T.U.F.).

Le conseguenze non sono prive di rilievo: in caso mancanza di forma scritta del contratto, il cliente bancario potrà agire per far dichiarare la nullità degli interessi ultralegali, delle commissioni e spese addebitatigli in costanza di rapporto, con effetti restitutori in proprio favore (art. 1284 c.c. e art. 117 T.U.B); del pari l’investitore finanziario potrà far valere la nullità del contratto quadro privo di forma scritta (come nel caso da cui è originata la sentenza in commento) e conseguentemente far dichiarare la nullità di tutti gli ordini di investimento esecutivi di quello che si siano rivelati per lui sfavorevoli, con effetti restitutori e/o risarcitori a proprio vantaggio (tra le tante, vedasi Tribunale di Milano 28.4.2015; Tribunale di Terni 17.11.2014; Tribunale di Venezia 28.4.2008).

Precedentemente Suprema Corte, sezione I, con la sentenza n. 4564 del 22 marzo 2012, seguita da buona parte della giurisprudenza di merito, aveva ritenuto che, in presenza di contratto sottoscritto dal solo cliente,  la previsione di forma scritta ad substantiam fosse comunque  rispettata qualora il documento  rechi la dicitura “un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato”. L’obbligo di forma scritta è altresì rispettato, proseguiva la Corte, quando, alla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, abbiano fatto seguito, anche alternativamente, la produzione in giudizio di copia del contratto da parte della banca, oppure la manifestazione di volontà della medesima di avvalersi del contratto stesso, risultante da plurimi atti posti in essere nel corso del rapporto (ad es. comunicazione degli estratti conto).
La sentenza in commento, come anticipato, segna al contrario un completo ribaltamento di rotta: la Cassazione prende atto dell’esistenza del suo precedente dictum del 2012 sopra riportato, ma espressamente dichiara che allo stesso “non può essere dato continuitá”, adducendo una serie di argomentazioni, senz’altro condivisibili, che fanno perno sul consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di perfezionamento dei contratti per i quali é prevista la forma scritta ad substantiam e il relativo onere della prova.
La Corte, in primis, premesso che il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute in documenti distinti, purchè risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo e purchè entrambe le scritture siano prodotte in giudizio, statuisce che la sottoscrizione da parte del cliente della dicitura "Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi" sposta la verifica del requisito della forma scritta ad substantiam sul piano della prova, ove trova applicazione la disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell'atto scritto nel solo caso previsto dall'art. 2725 c.c., comma 2, che richiama l'art. 2724 c.c., n. 3, ossia nell'ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua colpa il documento che gli forniva la prova del contratto. La preclusione della prova per testimoni citata opera parimenti per la prova per presunzioni ai sensi dell'art. 2729 c.c., per il giuramento ai sensi dell'art. 2739 c.c. e per la confessione quale, in definitiva, sarebbe la presa d'atto, da parte del cliente, della consegna dell'omologo documento sottoscritto dalla banca, manifestata con la dicitura in questione.
Ma, conclude la Corte, non si può parlare di "perdita", ai sensi l'art. 2724 c.c., nel caso, come quello di cui si discute, della consegna del documento alla controparte contrattuale che contiene la propria sottoscrizione (ossia della banca) e quindi non può attribuirsi valore confessorio alla dichiarazione del cliente di aver ricevuto copia del contratto sottoscritto dai rappresentanti della banca, né potrebbe ammettersi eventualmente una prova testimoniale sul punto, ai fini della prova della sussistenza nella fattispecie del requisito della forma scritta del contratto richiesto ai sensi di legge.
Quanto poi alla questione se la validitá del contratto privo della firma della banca possa essere ricollegata alla produzione in giudizio da parte di quest’ultima del medesimo documento ovvero a comportamenti concludenti posti in essere dalla stessa banca e documentati per iscritto (es. produzione in giudizio di contabili, ordini di esecuzione, estratti conto ecc.) da cui si evidenzierebbe la volontá di quest’ultima di avvalersi del contratto, la Corte, richiamando consolidato orientamento di legittimitá, sostiene ora che l’eventuale produzione in giudizio del contratto sottoscritto dall’altra parte non può che avere effetti contrattuali perfezionativi ex nunc e non ex tunc, (tant'è che il congegno non opera se l'altra parte abbia medio tempore revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l'atto incompleto non è più in vita nel momento della produzione, perchè la morte determina di regola l'estinzione automatica della proposta (art. 1329 c.c.)), con la conseguenza che gli ordini di acquisto eseguiti precedentemente al perfezionamento del contratto quadro (o,  nel caso di contratti di conto corrente, gli addebiti a titolo di interessi ultralegali, commissioni e spese effettuati prima del perfezionamento in giudizio del contratto) sono nulli proprio perché presuppongono l’esistenza ‘a monte’ di un contratto quadro valido. D'altro canto, aggiunge la Corte, far discendere la validità dell'ordine di acquisto dal perfezionamento soltanto successivo del "contratto quadro" non è pensabile, stante il principio dell'inammissibilità della convalida del contratto nullo ex art. 1423 c.c.
Quanto alla eventuale  rilevanza del comportamento tenuto dalle parti in costanza di contratto ‘monofirma’,  la Suprema Corte afferma che, in generale, nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo. La forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, è insomma elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l'estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicchè occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto.
Per cui, conclude la Corte, è di tutta evidenza che l’eventuale documentazione depositata dalla banca (contabili, attestati di seguito, estratti conto) non possiede i caratteri della "estrinsecazione diretta della volontà contrattuale", tale da comportare il perfezionamento del contratto, trattandosi piuttosto di documentazione predisposta e consegnata in esecuzione degli obblighi derivanti dal contratto il cui perfezionamento si intende dimostrare e, cioè, da comportamenti attuativi di esso e, in definitiva, di comportamenti concludenti che, per definizione, non possono validamente dar luogo alla stipulazione di un contratto formale.

sabato 4 febbraio 2017

ONERE DELLA BANCA PROVARE LE SINGOLE RIMESSE PRESCRITTE


Importante sentenza del Tribunale di Milano pubblicata 11.01.2017 in tema di onere probatorio: incombe alla banca provare le singole rimesse prescritte.